Pensioni e arretrati record: la rivalutazione può valere fino a 90.000 euro
La questione della rivalutazione delle pensioni continua a essere al centro di un acceso dibattito politico e sociale in Italia.
Un fenomeno complesso, iniziato con la riforma Fornero del 2012 e proseguito con successive manovre governative, che ha generato perdite economiche considerevoli per molti pensionati, soprattutto appartenenti al ceto medio. Secondo recenti analisi, ad alcuni pensionati andrebbero restituiti fino a 90.000 euro a causa dei mancati adeguamenti inflazionistici che si sono accumulati nel tempo.
Dal 2012, con la riforma previdenziale voluta da Elsa Fornero e il decreto “Salva Italia”, è stato imposto un blocco parziale della rivalutazione delle pensioni, che fino ad allora venivano adeguate annualmente al tasso di inflazione. L’ISTAT certifica l’indice dei prezzi al consumo, e ogni gennaio l’INPS rivaluta gli assegni pensionistici per tutelare il potere d’acquisto dei pensionati. Tuttavia, per oltre un decennio, questo meccanismo è stato modificato con criteri di perequazione ridotti per le pensioni più alte, causando un progressivo erosione del valore reale delle prestazioni.
Nel biennio 2023-2024, sotto il governo guidato da Giorgia Meloni, si è mantenuto un sistema di rivalutazione parziale, con percentuali di adeguamento decrescenti a seconda degli importi pensionistici:
- 100% dell’inflazione fino a 4 volte il minimo;
- 85% fino a 5 volte il minimo;
- 53% fino a 6 volte il minimo;
- 47% fino a 8 volte il minimo;
- 37% fino a 10 volte il minimo;
- 32% sopra 10 volte il minimo (scese al 22% nel 2024).
Solo nel 2025 si è assistito al ritorno a un meccanismo più equo e progressivo, con fasce di rivalutazione più strette e un’applicazione della percentuale ridotta solo alla parte eccedente la soglia fissata.
I danni economici accumulati e le stime degli esperti
Secondo uno studio realizzato da CIDA e dal Centro Studi Itinerari Previdenziali, i pensionati del ceto medio sono stati i più colpiti da questa politica di taglio della rivalutazione. Le perdite accumulate, in media, superano i 90.000 euro a persona.
Prendendo come esempio una pensione mensile di 4.000 euro (oltre 6 volte il minimo), nel 2025 l’inflazione dello 0,8% si traduce in un aumento frazionale: il 100% fino a 4 volte il minimo, il 90% sulla parte tra 4 e 5 volte, e il 75% sulla parte tra 5 e 6 volte il minimo. Tuttavia, questa stessa pensione ha già subito due anni di rivalutazioni parziali nel 2023 e nel 2024, durante i quali invece di un adeguamento pieno del 7,3% e del 5,4%, si è applicato solo il 47% di tali incrementi sull’intero importo.
Il risultato è una perdita di oltre la metà della rivalutazione spettante, che si aggiunge ai tagli già subiti a partire dalla riforma Fornero. Come riportato da Il Sole 24 Ore, su una pensione netta da 6.000 euro mensili la perdita cumulata può raggiungere quasi 180.000 euro. Anche pensioni più modeste, ad esempio da 3.000 euro al mese, hanno accumulato perdite superiori a 96.000 euro. Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi Itinerari Previdenziali, sottolinea come questi effetti continueranno a produrre impatti negativi per gli anni a venire.

Il nuovo sistema introdotto nel 2025 ha ripristinato la progressività nella rivalutazione, applicando le percentuali ridotte solo alla parte eccedente le soglie di riferimento, a differenza del passato quando il taglio riguardava l’intera pensione. Questa modifica ha migliorato la situazione per i pensionati, consentendo una crescita più regolare degli assegni.
Tuttavia, i danni accumulati negli anni precedenti restano irrisolti, e nessuna misura ha finora previsto un recupero retroattivo. Il cosiddetto “Bonus Poletti”, introdotto dai governi Renzi e Gentiloni, ha previsto solo un indennizzo una tantum che ha compensato in minima parte le perdite subite.
La questione rimane dunque aperta, con la necessità di valutare possibili interventi per restituire quanto perso dai pensionati e garantire una tutela più adeguata del potere d’acquisto degli assegni in futuro.