La testimonianza di Brianna Lafferty, sopravvissuta a otto minuti di morte clinica, riapre il dibattito su coscienza e aldilà, offrendo speranza a chi affronta malattie rare.
La storia di Brianna Lafferty, giovane donna americana di 33 anni affetta da una rara sindrome neurologica chiamata distonia mioclonica, ha recentemente riacceso il dibattito su ciò che potrebbe esserci oltre la vita. Dopo essere stata clinicamente morta per otto minuti, Brianna ha raccontato un’esperienza intensa e visionaria che ha radicalmente modificato la sua percezione della morte e dell’aldilà.
La rivelazione dell’aldilà e il messaggio di speranza
Nel corso di quei minuti, una voce le ha chiesto se fosse pronta a “andare oltre”. Brianna ha risposto di sì, comprendendo così che la morte non è una fine, bensì una trasformazione. La sua esperienza ha evidenziato che la coscienza può plasmare la realtà, con i pensieri che si materializzavano all’istante in quella dimensione ultraterrena. Al suo ritorno, dopo quattro giorni di degenza ospedaliera, ha dovuto affrontare lunghe e difficili fasi di riabilitazione, in particolare per danni permanenti alla ghiandola pituitaria. Nonostante la paura di un possibile nuovo arresto cardiaco, Brianna ha sviluppato una nuova visione della vita fondata sulla gratitudine e sulla consapevolezza che ogni evento, anche il più doloroso, svolge un ruolo nel percorso esistenziale.
Il suo messaggio è diventato una fonte di speranza per molti: la morte non deve essere temuta, perché rappresenta un passaggio verso un’altra forma di esistenza. Che si tratti di una realtà spirituale o di fenomeni neurologici ancora poco compresi, la testimonianza di Brianna tocca corde universali legate al senso profondo dell’essere.
La distonia mioclonica è una sindrome neurologica rara, classificata come una malattia del movimento caratterizzata dalla presenza di mioclono (scosse muscolari rapide e involontarie) e distonia (contrazioni muscolari sostenute che provocano movimenti anomali o posture). La prevalenza europea della MDS è stimata tra 1 e 9 casi per milione, con esordio tipico nella prima o seconda decade di vita. Il gene principalmente coinvolto è il SGCE, localizzato sul cromosoma 7q21.3, che codifica per una proteina essenziale nel complesso glicoproteico dei muscoli scheletrici e cardiaci.

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Dal punto di vista clinico, i sintomi iniziali includono spasmi muscolari fulminei soprattutto durante attività motorie complesse come la scrittura, interessando principalmente collo, braccia e tronco, ma anche talvolta gambe e laringe. Nel 66% dei casi si manifesta anche una distonia cervicale o focale, spesso stabile nel tempo. La sindrome può accompagnarsi a disturbi psichiatrici quali depressione, ansia, attacchi di panico e disturbi ossessivo-compulsivi, oltre a una tendenza all’abuso di alcol che temporaneamente allevia i sintomi ma non è consigliato.
Le neuroimmagini generalmente non mostrano anomalie, per cui la diagnosi si basa sui segni clinici e sull’esame genetico-molecolare che rileva la mutazione del gene SGCE. Un aspetto peculiare di questa malattia è l’imprinting materno del gene: nel 95% dei casi, i pazienti che ereditano la mutazione dalla madre non manifestano la malattia, mentre chi la eredita dal padre sviluppa la sindrome. Esistono anche mutazioni spontanee senza precedenti familiari.
La terapia è prevalentemente sintomatica e include l’uso di benzodiazepine come il clonazepam, anticonvulsivanti quali il valproato e il levetiracetam, nonché iniezioni di tossina botulinica per alleviare la distonia focale e cervicale. Alcuni pazienti trovano beneficio temporaneo nel consumo moderato di alcol, ma questa pratica non è raccomandata a lungo termine. Nei casi più gravi e invalidanti può essere indicata la stimolazione cerebrale profonda (DBS), che mira a modulare l’attività del globus pallidus interno (Gpi) e del nucleo ventrale intermedio (VIM) del talamo, con risultati positivi sia sul mioclono che sulla distonia.
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