Scoperto un sintomo precoce dell'Alzheimer - 3box.it
Questo sintomo può essere un segnale precoce di Alzheimer: precede la perdita di memoria e così può essere diagnosticato ancora prima.
La pubblicazione dello studio “Early Locus Coeruleus noradrenergic axon loss drives olfactory dysfunction in Alzheimer’s disease” contribuisce a una migliore comprensione delle basi neurobiologiche dell’iposmia nell’Alzheimer e apre nuove prospettive per la diagnosi precoce e l’intervento terapeutico mirato.
La riduzione della capacità di percepire gli odori, nota come iposmia, si conferma un segnale precoce di morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza a livello globale. Un recente approfondimento scientifico pubblicato su Nature Communications ha svelato i meccanismi biologici alla base del legame tra deficit olfattivi e Alzheimer, fornendo nuovi strumenti per la diagnosi precoce e il trattamento tempestivo della malattia.
La perdita dell’olfatto è un sintomo che può manifestarsi molto prima dei classici disturbi cognitivi, quali la perdita di memoria. Sebbene numerose condizioni possano compromettere la percezione degli odori — dalla COVID-19 ai polipi nasali o disfunzioni del setto nasale — è ormai accertato che anche malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer e il Parkinson presentano un precoce coinvolgimento olfattivo.
Gli scienziati del Centro tedesco per le malattie neurodegenerative (DZNE) di Monaco di Baviera, in collaborazione con istituti internazionali tra cui l’Università di Sydney e l’Ospedale LMU, hanno condotto test su modelli murini e pazienti utilizzando sofisticate tecniche di diagnostica per immagini, come la tomografia a emissione di positroni (PET). Queste analisi hanno permesso di identificare come la risposta immunitaria cerebrale, mediata da cellule chiamate microglia, attacchi selettivamente le fibre neuronali che trasmettono i segnali olfattivi.
Il cuore della scoperta riguarda l’interruzione della comunicazione tra due aree cerebrali fondamentali per il senso dell’olfatto: il bulbo olfattivo e il locus coeruleus. Il primo, situato nel proencefalo, elabora gli odori percepiti dai recettori nasali, mentre il locus coeruleus, nel tronco encefalico, modula queste informazioni tramite il neurotrasmettitore noradrenalina. Queste due regioni sono collegate da lunghe fibre nervose (assoni), che nel morbo di Alzheimer subiscono modifiche patologiche.
Il dottor Lars Paeger, coordinatore dello studio, ha spiegato che nelle fasi iniziali della malattia gli assoni che collegano il bulbo olfattivo al locus coeruleus diventano bersaglio di una risposta immunitaria anomala. Le cellule microgliali, infatti, riconoscono queste fibre come danneggiate a causa della migrazione all’esterno di una molecola chiamata fosfatidilserina, normalmente coinvolta nella rimozione fisiologica delle connessioni neuronali superflue. Questa migrazione anomala induce la microglia a distruggere le fibre nervose, causando così l’iposmia.
I cambiamenti olfattivi precedono di molto la comparsa dei sintomi cognitivi tipici dell’Alzheimer: alterazioni del linguaggio, disorientamento spaziale e perdita di memoria, che solitamente portano alla diagnosi clinica di demenza. Studi recenti, tra cui una ricerca cinese, suggeriscono che questi segnali possono emergere fino a 18 anni prima del quadro clinico completo.
L’attenzione verso la capacità olfattiva assume dunque un ruolo cruciale nella prevenzione e nella gestione della malattia. Test olfattivi mirati potrebbero consentire ai medici di individuare precocemente le persone a rischio e indirizzarle verso controlli più approfonditi, come l’analisi di biomarcatori nel liquido cerebrospinale, anche se più invasivi. La diagnosi tempestiva è particolarmente importante alla luce delle nuove terapie disponibili: ad esempio, il farmaco monoclonale Donanemab ha dimostrato di rallentare la progressione dell’Alzheimer fino al 39% se somministrato nelle fasi iniziali.
L’Università di Chicago ha recentemente confermato l’efficacia di test olfattivi come strumento di screening precoce, mentre studi australiani hanno evidenziato comportamenti potenzialmente rischiosi, come l’abitudine di inserire le dita nel naso, che potrebbero aumentare la suscettibilità alla malattia.
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